I primi segni della guerra sono i campi sterminati di girasoli e di frumento colmi di piante avvizzite e annerite dal gelo. Nessuno ha fatto il raccolto qui l’estate scorsa. Stiamo per entrare nella regione di Kherson, nel sud dell’Ucraina, invasa dai russi nei primi giorni di marzo e liberata dagli ucraini nel novembre scorso, dopo due mesi di furiosi combattimenti. Mi accompagna Sergey, ebreo nato in Moldavia, di lingua russa; è stato soldato dell’Unione Sovietica, ha una moglie armena, ma si sente del tutto ucraino. “Quando ci ha invasi Putin contava su persone come me, russofono senza un’identità ucraina definita. Ma ha sbagliato i conti. Per me e per tanti come me non ci sono stati dubbi: difendiamo il Paese in cui abbiamo deciso di vivere, liberi e in pace”. Il giorno dell’invasione ha portato la famiglia in Moldavia e da allora assieme ad un gruppo di amici aiuta “i ragazzi al fronte” e la gente delle zone occupate. Hanno già fatto rischiosi viaggi a Bakhmut, “la nostra Stalingrado”, con viveri, attrezzature, vestiti.
Ci avviciniamo ora a quella che era la linea del fronte dell’autunno. Ce lo annunciano le poche costruzioni che si incontrano nell’immensa pianura, non una è rimasta intatta; qualche grande fattoria, magazzini, misere casupole di contadini sventrate, con il tetto sfondato, i muri bruciati. Distrutte perché ciascuna poteva essere un rifugio per i soldati nemici. Ci fermiamo in quello che una volta era il villaggio di Artakova, poche povere case ai lati della strada, ora solo rovine. Non c’è traccia di vita intorno noi, solo un silenzio immobile rotto da un vento rabbioso. Enormi crateri e razzi ancora conficcati nel terreno raccontano la storia del paese che non c’è più. Pochi chilometri più avanti un piccolo bosco interrompe i campi sterminati. Gli alberi privi di foglie sono spezzati, neri, bruciati. Il terreno è ricoperto di rifiuti. Qui nel bosco vivevano i soldati in battaglia, cercando di nascondersi in un territorio piatto che non offre altro rifugio. Nella terra sabbiosa si aprono decine di buchi poco profondi, tane in cui un uomo può a malapena distendersi, scavate alla bell’e meglio dai soldati per avere almeno un’illusione di protezione nel passare la notte. Sembrano ora tante fosse vuote di un cimitero profanato. Vicino giacciono, come grandi mostri orrendamente sventrati, carri armati e mezzi blindati bruciati e spezzati dalle esplosioni, i cingoli srotolati e le teste mozzate. Anch’essi avevano cercato rifugio e nascondiglio tra gli alberi, invano. La stessa scena ci si presenterà ogni volta che nei dintorni incontreremo qualche fila di alberi ormai spezzati e carbonizzati. Lungo la strada, qualche brandello di plastica attaccato a un paletto indica i campi di mine, quelli scoperti.
È questo il paesaggio di guerra qui a Kherson, spazi immensi di silenzio, ogni possibilità di rifugio e di vita distrutta.
Su un passaggio di fortuna guadiamo infine l’Ingulets, un piccolo fiume dolce e sinuoso che solca la campagna e che per mesi è stato la linea del fronte. Ogni ponte che lo attraversava è stato fatto saltare, centinaia di soldati sono morti nel tentativo di attraversarlo. Più lontano dal fronte i villaggi prendono vita, dapprima qualche animale, poi finalmente si incontrano le persone. Qualche vecchio che esce di casa a vedere chi sono gli stranieri, donne che spingono biciclette cariche di pacchi. Al militare responsabile dei rapporti con i civili e al capo villaggio consegniamo un generatore e altri aiuti. Non c’è il tempo, né la voglia per cortesie e cerimonie, l’atmosfera è cupa come fuori il cielo. Devono fare i conti con le violenze che le famiglie hanno subìto nell’occupazione, e poi la guerra non è finita, ci dice lo starosta, e i russi sono ancora dall’altra parte del fiume, il grande Dnipro, pochi chilometri più in là. A sera, in un’oscurità impenetrabile, riprendiamo la lunga via del ritorno. I posti di blocco sono più nervosi, si passa solo con la parola d’ordine. D’improvviso, si scorgono due lampi lontani, come in un temporale estivo. È l’artiglieria russa, che ogni giorno dal fiume vuole affermare il suo potere su Kherson, città che la Russia ha invaso e solennemente dichiarato territorio russo. E che poi è stata costretta a cedere dagli ucraini che, come Sergey e tanti altri incontrati in questo viaggio di EUcraina, non rinunciano al loro diritto di esistere, liberi, nella loro terra