Yuliia, Anna, Natasha e Dmitro e Artem che ci accompagnano in questi giorni a Dnipro sono orgogliosi di mostrarci la città e la sua gente. Parlano russo tra loro, così come tutte le persone che incontriamo. “A Dnipro il russo è la lingua corrente, nelle nostre famiglie come nei rapporti sociali” rispondono “Nessuno si è mai sentito discriminato per questo. E nessuno di noi ha mai voluto diventare russo”.

Oggi è un’immersione completa nella realtà della guerra e nelle sue storie di sofferenza. Andiamo a visitare le strutture di accoglienza dei profughi. Incontriamo Elena, proveniente da Pokrovsk, cittadina della regione del Donetsk. Già nella Seconda guerra mondiale la città (allora chiamata “armata Rossa”), occupata dagli italiani seguiti dai tedeschi, ebbe a soffrire pesantemente. Nel 2014 si trovava proprio sul confine con l’autoproclamata repubblica di Donetsk ed è stata quindi coinvolta negli scontri. Ora è stata tra le prime ad essere stata presa di mira nell’invasione russa. “Il russo è la mia lingua madre. Quello della lingua e della protezione di noi russofoni è un pretesto che i russi hanno inventato”.

Nella stessa stanza Evgen, 14 anni, e la sorella Valeria di 10 seguono le lezioni online. Sono scappati dalla stessa città, sotto le bombe. Ora vivono qui con la mamma. “Non stiamo male, ma vogliamo tornare presto a casa”. Kostia, 12 anni, ci viene incontro sfoderando il suo ottimo inglese e ci mostra contento i suoi gatti. È scappato dal suo villaggio con la mamma, la sorella Milana. Si intristisce e si emoziona presto quando incomincia a raccontare: “Ho pochi ricordi di quando sono partito. So solo che ora lì è molto brutto”. Yulia con l’anziana madre e il figlio nei primi giorni di aprile ha lasciato Lysychansk, una città di 100.000 abitanti nella regione di Lugansk. Composta ed elegante, ci racconta la sua storia, che è quella di tanti altri. “Era impossibile vivere lì. Il 30 marzo la nostra casa è stata distrutta dalle bombe dei russi. Sono riusciti a prendere la città solo il 2 luglio, dopo averla completamente distrutta. Oggi lì non ci sono elettricità, gas, acqua corrente, né internet. La gente cucina sul fuoco per strada o nei cortili. Abbiamo contatti sporadici, tramite amici.” Ora Yulia si anima “Sappiamo che i russi stanno facendo un referendum anche lì. Che senso ha? Il 90% della popolazione è scappato in Ucraina e in Europa. Chi è rimasto è perché non ce l’ha fatta a andarsene. Nessuno vuole diventare russo. Quei pochi che sono in Russia li hanno deportati”.

Kostia, 32 anni, minatore di carbone e russofono, viene da Vugledar, nella regione del Donetsk. La città e il suo ospedale sono stati bombardati dai russi già il 24 di febbraio. “I bombardamenti erano quotidiani. Ci siamo rintanati nei rifugi sotterranei. Il 31 marzo i russi hanno sferrato un grande attacco. Io e un amico siamo stati colpiti da un colpo di mortaio. Lui ha perso una gamba e un braccio. Io sono stato ferito gravemente alle mani. Allora non ho potuto fare altro che scappare, aiutato dai soldati ucraini.” Nel racconto Kostia diviene un fiume in piena: “I russi devono essere isolati dalla società civile, con le sanzioni! Altro che liberazione, quello che stanno facendo è un genocidio. Se qualcuno pensa che noi dobbiamo smettere di combattere, dovrebbe venire qui. Se noi smettessimo, perderemmo la nostra libertà e anche la nostra vita”.

Nella stessa struttura di accoglienza vi sono persone disabili e famiglie numerose che non hanno potuto ancora trovare una sistemazione o che semplicemente non vogliono saperne di andarsene lontani, in un Paese che non è il loro. Rimangono vicini alla loro terra, contando di poterci tornare presto. Li assistono Artem e Evgenii, 17 e 19 anni, studenti di Kharkiv. “Quando è cominciata la guerra, a Kharkiv era difficile capire cosa stesse succedendo. Ci siamo rifugiati nei tunnel della metropolitana, come quasi tutti quelli che non hanno potuto scappare. Siamo stati svegliati dalle bombe russe alle 5.08 del mattino del 24 febbraio. Poi Kharkiv è stata bombardata molte volte al giorno e anche di notte. Abbiamo passato quattro mesi così. Poi siamo venuti qui e ora aiutiamo gli altri profughi. Ora a Kharkiv si vive meglio, perché i nostri soldati hanno spinto via i bastardi”.  Non hanno più la chitarra e il basso con cui suonavano in una band, li hanno dovuti lasciare a Kharkiv.

Nella stessa struttura si trovano gli anziani del circolo “Kalina”. Anche loro partecipano alla difesa del paese. Producono indumenti, reti mimetiche e quant’altro di utile riescono a fare per i soldati. Quando si mettono a cantare con entusiasmo la canzone patriottica “Viburno rosso” per i visitatori italiani è difficile non commuoversi.

Andiamo all’ospedale principale della città che da marzo è l’ospedale di riferimento per i soldati feriti che arrivano dalla prima linea, decine ogni giorno. Medici e infermiere lavorano e operano giorno e notte; molte sono le amputazioni. Oleksii e Olexandr hanno studiato assieme a scuola e poi all’università; ora il primo è il primario del reparto di traumatologia ortopedica e il suo amico è chirurgo vascolare nel reparto politraumatizzati. Hanno appena terminato di operare. Anche se stanchi, parlano volentieri del loro lavoro. Non mancano risorse umane e competenze professionali di ottimo livello. C’è grande bisogno invece di strumenti diagnostici e di cura moderni (e costosi). Forse che i nostri più ricchi ospedali possono aiutare? Andiamo nelle stanze dove in quattro letti stanno i soldati feriti. Serhii, 23 anni, ha subito poche ore fa l’amputazione di un piede, spappolato su una mina due giorni fa.  Non sembra stare male, certo non ha remore a parlare di quello che gli è accaduto. Olexandr e Dmitro hanno subito nei giorni scorsi le operazioni per la riduzione di importanti fratture. Anche loro hanno voglia di parlare, così perdo presto il mio imbarazzo di visitatore straniero. “Vogliamo tornare al fronte appena sarà possibile. Siamo motivati”. “Vinceremo di sicuro, ma non abbiamo abbastanza armi moderne. Dateci più Javelin e veicoli blindati per il trasporto dei soldati. Voi italiani ne avete di buoni [credo si riferiscano ai “Lince”, pochi ma molto apprezzati in Ucraina]. Finiremo prima la guerra”. Il dottore, come la gente, li presenta come “i nostri eroi”. “Non siamo noi gli eroi – lo interrompe Olexander- ‘Eroi’ va detto della nostra gente che resiste e che ci è vicina”. Dette da un letto d’ospedale, sono frasi sincere, che vanno dritte al cuore.

L’Ucraina che abbiamo incontrato oggi è un Paese unito dalla sofferenza, dall’orgoglio e dalla volontà di vincere.

Giovanni Kessler

Daniele Torresan

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