Il viaggio da Kyiv verso la zona del fronte dell’est scorre tranquillo come una gita turistica. Lungo la strada si stende a perdita d’occhio la ricchezza ucraina: pianure sconfinate di terra nera, grassa, la campagna più fertile del mondo, pronta a essere lavorata dopo l’inverno. Un paesaggio di pace e lavoro. Nei pressi di Kharkiv mi fermo per visitare il cimitero di guerra tedesco, testimonianza di un’altra guerra che ha devastato questa ‘Terra di sangue’. Una distesa di lapidi ricopre un grande pendio alla periferia della città. Un cartello a caratteri cubitali mi accoglie all’ingresso. “Accesso vietato! Pericolo di morte! Cimitero minato!”. Vedo poi tutto intorno i cartellini con il teschio bianco su sfondo rosso, simbolo internazionale delle mine. Mi allontano subito (e con grande cautela). Il ricordo dei massacri passati lascia il posto alla riflessione sulla perversione generata in un camposanto dall’intreccio delle due guerre che hanno avuto Kharkiv e l’Ucraina sempre terreno di conquista.

I triangoli rossi con il teschio bianco mi accompagnano ora per lunghi tratti strada che si inoltra vicino al fronte, nei territori occupati due anni fa e poi liberati dall’Ucraina. Penso alle distese di campi impraticabili per anni, al Paese e ai coltivatori che subiscono questo esproprio della loro più grande ricchezza.

A Izium, città invasa dai russi e poi liberata, i segni della violenza diventano il tratto dominante dell’ambiente in cui mi muovo. Ponti distrutti, case orrendamente squarciate, bruciate, tetti sfondati. Sarà così quasi fino all’arrivo a Sloviansk, nel Donetsk che i russi non sono riusciti a prendere, dove sono ospite da Larissa e Vitaliy. Siamo a 30 kilometri dal fronte, si arriva a sentire il rumore dei cannoni. Molti abitanti se ne sono andati all’estero o in Ucraina, in zone più sicure. Anche loro sono scappati due anni fa, quando i russi premevano alle porte. Dopo mesi sono ritornati a casa, “lontano da casa aspettavo, che cosa poi? Qui a casa vivo” dice Vitaliy. In maniera precaria, come vedrò subito. Mentre a cena gustiamo la lasagna che Larissa ha preparato in onore dell’ospite italiano, un colpo secco e assordante fa tremare pareti e pavimento. Mi guardo intorno, sembro l’unico spaventato, assieme a Zara, il pastore tedesco che sembra impazzita di paura. “Questo è stato vicino!”, dice asciutto Vitaliy. Seguono altre esplosioni più lontane. “C’è un rifugio?”, chiedo. Non hanno cantina, né luogo sotterraneo dove ripararsi. “Non avete paura?”. Scuotono la testa. Poi, armeggiando con il traduttore per essere sicuri di esprimersi bene, mi dicono “abbiamo solo paura di essere invasi dai russi”. Detto da due russofoni del Donetsk, quelli che Putin sarebbe venuto a liberare, secondo quanto credono ancora in Italia alcuni ingenui o in malafede. Dai canali Telegram dai gruppi sui social, veniamo presto a sapere che un missile russo ha colpito la scuola N. 18, a meno di un kilometro. “Era la scuola mia e di mio figlio”, osserva mesto Vitaliy. È rimasto ucciso il solo custode, la scuola era vuota. Poteva essere una strage, perché l’edificio ospita una mensa per i poveri e per gli sfollati e il deposito di alimentari per la comunità. Proprio dove avrei portato i salumi e i formaggi della Val di Sole e gli alimentari acquistati da EUcraina. Nella cittadina vicina i missili russi hanno colpito due case, uccidendo due persone e ferendone altre. Cosa sarà che fa sparare ogni giorno missili teleguidati e costosissimi su obiettivi che sembrano presi a casaccio? La ricerca di obiettivi di interesse militare? La volontà di fiaccare lo spirito di resistenza della gente comune? Qualche comandante russo (o il dittatore) che vuole a modo suo sfogare la rabbia o festeggiare qualche cosa? Probabilmente un po’ di tutto questo. Quel che è certo è che la vittima è sempre la gente comune, che vuole vivere in pace e non ha nessuna intenzione di finire in una dittatura.

Il giorno dopo incontro con Olya, medico militare, accompagnata da Andriy, un giovane tecnico informatico, volontario dall’inizio della guerra e divenuto ufficiale sul campo. Incontro in locale pubblico, niente foto, niente telefonini. Con la geolocalizzazione i russi seguono giornalisti e volontari e possono capire dove si trovano raggruppamenti di militari. O anche attaccare direttamente che porta aiuti, come è accaduto poco fa a due operatori umanitari candesi, uccisi da un drone. L’umore non è quello di quando ci eravamo visti mesi fa. Poco fa è caduta la città di Avdiika, a pochi kilometri da qui, una spina nelle linee russe che ora hanno distrutto e conquistato. Gli ucraini sono sulla difensiva. Non c’è paura o esitazione, ma preoccupazione. Quella di perdere il sostegno che è necessario per respingere l’invasore. “Ci mancano munizioni. Se ne avessimo abbastanza potremmo eliminare le postazioni di artiglieria russa che ci massacrano. E respingere gli invasori. Anche le munizioni salvano vite”. Consegno a Olya il materiale medico che EUcraina ha potuto acquistare grazie alla generosità dei suoi soci, di tanti donatori privati, del Fondo Comune Casse Rurali Trentine, dei Lions Valsugana e Trento del Concilio. Sono dispositivi per bloccare le emorragie, il pericolo maggiore per i tanti qui feriti dai bombardamenti e dalle mine. Prendendo in mano i due scatoloni mi rendo conto di quanto piccola cosa sia, e quasi ne chiedo scusa. “Non è poco, dice Olya perché questo salverà vite. Ne abbiamo molto bisogno. E ci fa sapere che non siamo soli. Grazie!”. No, non siete soli, penso, e spero saremo in tanti a dimostrarlo in piazza sabato, nell’anniversario dell’invasione.

Torno a Sloviansk e vado alla scuola N. 18. C’è una piccola folla silenziosa, tanti bambini accompagnati dai genitori, fermi a guardare ciò che rimane della loro scuola. Non c’è paura, né rabbia, solo un composto dolore. Nessuno ha voglia di parlare con un curioso straniero. Solo una babushka mi affronta decisa ma con gli occhi pieni di lacrime “Ma cosa vogliono questi da noi!?”. Nevica fitto ora, ma la neve non riesce a coprire l’odore acre di bruciato, di terra marcia, di odio e violenza insensati che emana dall’edificio sventrato della scuola N. 18.

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