Formato nel “Gruppo don Milani” e poi nel margine, l’obiezione di coscienza al militare è stata una scelta naturale per me, come per molti altri amici del margine. Ma don Milani, che definisce «guerra giusta» la guerra partigiana, con il suo insegnamento esigente ci chiede di metterci in gioco, di schierarci, di prendere parte. Così come Emmanuel Mounier ci dice che l’amore per la pace non ha niente a che vedere con il «pacifismo di gente tranquilla» e che il cristiano deve rifiutarsi di dare il nome di pace alla semplice assenza di guerra. Pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, è stato altrettanto naturale, assieme ai “marginalisti” Paolo Ghezzi e Michele Nicoletti, fondare l’associazione “EUcraina” per sostenere
gli ucraini nella loro Resistenza.
Il 21 febbraio di un anno fa, Putin si rivolge alla nazione russa con un solenne discorso a reti unificate. «Parlerò dell’Ucraina, a lungo e in dettaglio», annuncia, e si lancia in una riscrittura della storia dei due Paesi, operazione sospetta e pericolosa quando a farla è un dittatore. «Da tempo immemorabile, le persone che vivono nel sud ovest di quella che storicamente è stata la terra russa si chiamano russi», «l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia bolscevica e comunista, separando quella che è storicamente terrarussa» afferma.
L’Ucraina viene rappresentata come un errore di Lenin nel 1917 e della “fatale decisione” del Pcus nel 1989 di lasciare libere le repubbliche sovietiche. Secondo Putin l’Ucraina, nata nel 1991 dal disfacimento dell’Unione Sovietica, «non ha mai avuto tradizioni stabili di reale statualità», «ha optato per emulare stupidamente modelli stranieri» e i suoi processi politici elettorali servono solo come «copertura di una
distribuzione di potere tra oligarchi». Seguono lunghi attacchi a Maidan, la rivolta del 2014 contro il presidente Yanukovich che aveva bloccato il processo verso l’Unione Europea, e contro le nuove istituzioni anticorruzione, citate una ad una e definite strutture di asservimento ai Paesi occidentali. Insomma, secondo Putin l’Ucraina è da sempre russa, è frutto di un errore della storia, non è un vero Stato, ma una congrega di delinquenti. E i caratteri fondativi e distintivi dell’Ucraina moderna, la democrazia popolare, difesa e riaffermata con i morti di Maidan, e il processo di affermazione dello Stato di diritto sono solo strumenti di asservimento usati da potenze straniere. Il lungo discorso si chiude con il riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, separatesi dall’Ucraina nel 2014 con l’appoggio militare russo.
Due giorni dopo, 150.000 soldati russi invadono l’Ucraina da nord, da est e da sud, mentre truppe speciali elitrasportate prendono d’assalto direttamente la capitale. È la traduzione in azione delle parole poco prima solennemente pronunciate: ora si rimedia agli errori del passato, si caccia la congrega di mascalzoni che governa, si riunisce ciò che è stato improvvidamente diviso e si fa ritornare nell’impero russo ciò che storicamente gli appartiene. Le cose non sono andate come Putin aveva pensato e lungamente preparato. Kyiv ha resistito, il presidente non è scappato e un’armata composta da soldati, poliziotti, ragazzini con i loro droni, pensionati, casalinghe e maestre con vecchi fucili e bottiglie molotov preparate in casa ha respinto le colonne di tank russi, costringendole a ritirarsi. L’esistenza dell’Ucraina come Paese indipendente, la sua libertà, la democrazia e lo stato di diritto sono state salvate da un popolo in armi. Le aspettative putiniane di defezioni nell’apparato istituzionale e di accoglienze festose per i russi liberatori, frutto anche dell’esperienza della Crimea nel 2014, sono state frustrate. Il pronto ricongiungimento dell’Ucraina all’impero russo è quantomeno rimandato. Dopo un anno, le truppe russe sono costrette ad una guerra di posizione per difendere quel che resta delle regioni occupate. E Putin, oltre a distruggere ciò che non è riuscito ad avere, è impegnato nel rivedere e rieditare, almeno a fini propagandistici, le motivazioni e gli obiettivi dell’ “operazione speciale militare”. Ecco allora le parole d’ordine della “denazificazione” dell’Ucraina, la sua “desatanizzazione”, la (presunta e non richiesta) liberazione dei russofoni, la reazione ad un’aggressione che l’Occidente stava preparando. Non è un compito facile quando le vittime arrivano a 80.000 e si deve ricorrere alla mobilitazione generale. E l’esito è tutt’altro che scontato, non solo per la risostituzione dell’impero ma anche per la tenuta stessa della sua dittatura.
Quest’anno di guerra in Ucraina non costringe solo Putin a riformulare le teorie e i suoi obiettivi. Sono anche e forse più i Paesi di democrazia matura ad essere messi alla prova in tante loro inveterate convinzioni e schemi di interpretazione.
Nonostante i visibilissimi segni, i messaggi che arrivavano da Mosca e gli avvertimenti del presidente americano, la maggioranza dei governi, le istituzioni europee e la gran parte dei nostri maître-à-penser sono stati presi di sorpresa da una guerra nel cuore dell’Europa che non si voleva credere. Gli schemi ideologici e gli strumenti interpretativi tradizionali si sono rivelati in larga parte inadeguati, incapaci di riconoscere un mondo che cambia. Molto meno efficaci dei satelliti spia americani.
Le istituzioni che abbiamo creato per la prevenzione ed il governo dei conflitti nel mondo hanno di colpo evidenziato i loro limiti e la loro intrinseca debolezza. L’Osce, nata proprio come strumento di superamento della divisione tra i due blocchi e di dialogo tra Russia e Paesi occidentali per la sicurezza era fortemente impegnato in Ucraina. Una sua missione monitorava il conflitto nel Donbas e il suo Consiglio permanente era il luogo per eccellenza in cui si discutevano le dispute tra la Russia e l’Ucraina. Nulla ha potuto quando la Russia, poco prima dell’invasione si è sfilata dalla missione e ha rifiutato il confronto nel Consiglio. Il dialogo diplomatico, il multilateralismo, le missioni civili sul terreno sono i migliori strumenti a disposizione per la prevenzione e risoluzione pacifica dei conflitti e saranno preziosi nella fase di ricostruzione post-bellica. Ma si sono rivelati deboli ed inefficaci di fronte alla volontà imperialistica ed aggressiva di uno dei suoi componenti. Le Nazioni Unite restano probabilmente uno dei più grandi successi nella storia dell’umanità. Ma sono state disegnate in un mondo diviso tra le grandi potenze e a misura di esse. Si sono dimostrate irrimediabilmente impotenti e inutili quando, come nel caso dell’Ucraina, hanno dovuto intervenire su uno dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto. Dobbiamo riconoscere che non possiamo pretendere dalle istituzioni multilaterali in cui lavorano assieme democrazie e non democrazie quello che, se non pesantemente riformate, non possono dare: una capacità di creare e di imporre la pace, se necessario anche con la forza.
L’Unione Europea si è trovata la guerra sulla porta di casa e si è scoperta lenta, limitata e debole. A differenza di Stati Uniti e Regno Unito, non ha voluto ostinatamente credere all’evidenza empirica che la Russia stesse per invadere l’Ucraina. Dopo l’invasione ha trovato faticosamente e lentamente l’unanimità necessaria per reagire con sanzioni efficaci. Pur essendo un gigante economico, è un nano politico e un moschino militare. Le spese militari degli Stati membri sono più del doppio di quelle della Russia, ma senza alcuna capacità di deterrenza. Abbiamo 27 eserciti nazionali, ma non una vera unione per la difesa. Con la regola dell’unanimità, un Paese come l’Ungheria può ricattare gli altri 26 su sanzioni e su politica estera. Questo vuoto di potere europeo ha reso possibile l’invasione e spinge tutti gli Stati membri
a cercare rifugio nella Nato, rilanciata dal dittatore russo. Putin ha creato una crisi energetica che ha fatto schizzare l’inflazione in Europa. Eppure, per la necessità di avere tutti a bordo, ci sono voluti mesi per approvare un tetto al prezzo del gas, così alto che non è mai stato utilizzato. Non abbiamo un’unione dell’energia; manca un meccanismo di acquisto comune; non abbiamo una riserva strategica comune, né una vera rete energetica europea, che ci consentirebbero risparmi e sicurezza energetica. La sicurezza europea e la stabilizzazione dei Paesi vicini rimangono un compito dell’Unione, irrealizzato e irrealizzabile senza un’unione politica e della difesa, cioè una nuova sovranità europea. Putin ci ha aiutati a prenderne consapevolezza.
Non solo le istituzioni, ma inveterate nostre convinzioni sono messe in discussione. L’invasione russa ha rotto ottant’anni di pace in Europa e con esso l’ottimismo che ha guidata la globalizzazione degli ultimi trent’anni. Aver coinvolto la Russia nell’economia globalizzata e stretto lucrosi legami economici (con lunghi gasdotti) non è stato sufficiente a impedire il conflitto. Essersi legati ad un Paese non democratico ci ha invece esposti a rischi molto gravi, economici e politici, come il ricatto energetico a cui siamo ora sottoposti da Putin ha dolorosamente evidenziato. L’espansione del capitalismo non può essere un sostituto funzionale dell’espansione della democrazia a garanzia della pace e della sicurezza. “Pace attraverso il commercio” è poco più che un’illusione quando si tratta con una non democrazia. Occorrono
le dovute cautele, limitando la dipendenza e soprattutto avendo alle spalle uno strumento militare e politico-decisionale in grado di dissuadere le minacce.
Alla guerra di Putin il movimento pacifista e parte significativa dell’opinione pubblica e politica ha reagito in maniera quasi automatica, invocando il silenzio immediato delle armi e l’iniziativa diplomatica per una risoluzione negoziale del conflitto. Non stupisce che dopo un anno non si sia fatto alcun progresso su questa strada. Un immediato “cessate il fuoco” porterebbe soltanto alla legittimazione dello status quo, vale a dire dell’occupazione armata di intere regioni ucraine, dove milioni di persone sono sottoposte a violenze, repressione e deportazione. Pace non è il silenzio delle armi, che può coprire ogni ingiustizia. Non c’è pace senza giustizia e senza libertà. E non ci sono giustizia e libertà senza la resistenza all’aggressore.
E quale negoziato si potrebbe aprire di fronte alla pretesa imperialista di annessione; potrebbe mai il popolo ucraino negoziare il suo diritto di esistere, la sua identità di nazione, l’indipendenza, la libertà di scegliersi i governi, i presidenti e le alleanze nel mondo? Non sono beni negoziabili e un popolo ne può essere privato solo con la violenza delle armi. La Russia da parte sua non è disposta ad appagarsi di niente di meno che della cancellazione dell’ “errore della storia” che diede vita all’Ucraina. E per Putin stesso la guerra è divenuta una lotta da cui dipende la sua stessa sopravvivenza. Se si accontenterà di qualcosa di meno sarà perché costretto dalla resistenza armata e dalla necessità di consolidare le forze per riprendere poi la guerra con più slancio. Chi dice che le guerre finiscono solo attraverso il negoziato dimentica che Hitler fu sconfitto senza negoziati, così come l’Unione Sovietica lasciò l’Afghanistan e gli Stati Uniti lo lasciarono anni dopo; e senza negoziati finì la seconda guerra nell’Iraq.
C’è il rischio di escalation, fermiamo la guerra prima che si trasformi in una guerra nucleare, dicono ancora molti benintenzionati, chiedendo la cessazione dell’invio di armi all’Ucraina. Il pericolo di missili nucleari che piovono sulle nostre teste fa passare tutto il resto in secondo piano e gli ucraini diventano dei testardi che mettono in pericolo il mondo. Se smettessero di combattere, potremmo tutti stare
al sicuro. Questo è quanto ci induce a pensare Putin con le sue velate minacce di uso dell’atomica, amplificate dal suo apparato di propaganda. Ma è profondamente sbagliato.
Cedere al ricatto nucleare e sacrificare gli ucraini al loro destino di vittime per garantirci la nostra sicurezza è in primo luogo moralmente sbagliato. Ed è sbagliato anche come pensiero strategico. Se una potenza atomica ne potesse coartare un’altra riferendosi al suo arsenale nucleare, ogni politica internazionale diverrebbe impossibile, le potenze atomiche governerebbero il mondo e gli altri potrebbero solo cedere. Se il ricatto nucleare di Putin avesse successo, ci possiamo aspettare non solo altri ricatti nucleari russi, ma anche di altre potenze nucleari. E Paesi che oggi non hanno l’atomica cercheranno di ottenerla per munirsi di uno strumento di dissuasione nei confronti di una
invasione di una potenza atomica. Se oggi solo nove Paesi fanno parte del club delle potenze atomiche, presto molti altri, che avevano interrotto i loro programmi per l’arma nucleare, si sentiranno incoraggiati o costretti a riprenderlo per garantirsi la sopravvivenza. La non proliferazione, principio a fondamento della sicurezza nucleare, cesserebbe di esistere e il mondo sarebbe decisamente più insicuro. Il solo modo
per evitare questa conclusione è la vittoria dell’Ucraina con una guerra convenzionale contro una potenza atomica. È possibile, è già successo all’Unione Sovietica in Afghanistan e agli Stati Uniti in Vietnam o alla Francia in Algeria. Anche per questo, sostenere l’Ucraina con tutte le armi convenzionali di cui ha bisogno per respingere l’esercito invasore è non solo un dovere morale di solidarietà, ma l’unico modo per giungere alla pace e garantire la sicurezza mondiale.