Giovanni Kessler propone la sua analisi ora che la guerra ha fatto irruzione anche sul suolo russo
LA TRATTATIVA
(Kyiv, Ucraina). Come è risaputo, Stati Uniti e Federazione Russa hanno sempre mantenuto un filo di comunicazione aperto, anche nei momenti più difficili, come si conviene a due potenze nucleari. Ciò non è venuto meno dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i due interlocutori hanno anzi rinforzato il dialogo, che avviene per canali riservati. Gli Stati Uniti non sono e non possono essere indifferenti alle minacce putiniane di uso dell’arma nucleare. Non sono indifferenti alle ritorsioni economiche in atto e minacciate dalla Federazione Russa; le sue banche e le sue imprese vogliono tornare a fare affari con la Russia. E Putin è molto abile a usare a suo favore minacce e promesse di tipo economico; l’abbiamo visto all’opera anche in Europa negli ultimi decenni. Infine, l’Amministrazione Biden, a torto o a ragione, teme la dissoluzione della Federazione Russa, il disordine e l’insicurezza mondiale che ne potrebbero derivare. Questo insieme di timori e interessi nel caso dell’Ucraina risultano ben più forti della tradizione democratica americana di sostegno alla legalità internazionale e ai Paesi aggrediti. Pensiamo a come gli Stati Uniti in tempi recenti sono intervenuti militarmente a favore di Israele, del Kuwait invaso da Saddam, in Serbia per proteggere il Kosovo. Dall’altra parte però non c’era la Russia. Questo, e solo questo, spiega l’arrendevolezza americana (e dei suoi alleati al seguito) alle denunce di “escalation” del Cremlino e dei suoi propagandisti; l’esitazione a superare le “red lines” volta a volta poste dai russi (no ai carri armati altrimenti potremmo usare l’atomica; no agli aerei; no a soldati o istruttori occidentali in Ucraina); il rifiuto all’Ucraina nella NATO, ribadito anche nell’assemblea di luglio. Solo con la volontà di mantenere un saldo rapporto con Putin si spiegano gli aiuti all’Ucraina in ritardo e centellinati, quel tanto che basta perché non collassi, quel poco perché non faccia veramente male alla Russia. Non valgono spiegazioni pseudogiuridiche per l’ipocrita divieto di usare le armi occidentali sul territorio russo; basti pensare che dal 30 settembre 2022 anche tutte le regioni di Donetsk, di Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia sono formalmente territorio russo e, nonostante ciò, vi si usano le armi che servono alla guerra. E la legittimità dell’uso delle armi in una guerra di legittima difesa non fa distinzione del territorio in cui viene usato. È un divieto cinico e opportunistico (che nel nostro Paese ha preso anche toni francamente ridicoli), frutto della volontà di non rompere con Putin e di un dialogo che non è mai venuto meno. A spese dell’Ucraina, costretta a pagarne il prezzo con la vita dei suoi soldati e dei civili colpiti da missili e bombe che non è autorizzata a fermare. E a costo di far durare anni una terribile guerra di attrito. Una situazione che non può durare a lungo.
E infatti, da qualche mese questa situazione si è messa in movimento. La chiave sono le elezioni del Presidente degli Stati Uniti, che si svolgeranno il 5 novembre (le date qui contano, e molto). Il presidente Biden, candidato a succedere a se stesso, deve ottenere un successo decisivo in tempo per raccoglierne i frutti nell’urna. Deve dimostrare che è capace di portare la pace nei due focolai di guerra: Gaza e Ucraina (dove il suo avversario si è già vantato di fare la pace in due giorni, se eletto). Ecco allora che il dialogo con la Russia si fa più serrato e diviene una vera e propria trattativa, come mi è stato riferito da una persona che ne ha conoscenza diretta. Gli incontri russo-americani- si fanno intensi, ad alto livello, e naturalmente segreti. Si discute e ci si accorda anche sullo scambio di prigionieri politici in Russia con assassini e spie russe in occidente. Infine, si giunge all’accordo con la Russia: cessate il fuoco immediato in Ucraina, sulla linea del fronte esistente; apertura di un negoziato internazionale per la soluzione del conflitto. Un gran successo per il candidato Presidente Biden, che può portare a casa il cessate il fuoco in Ucraina insieme con quello di Gaza (se non fosse per Netanyahu, che ogni volta che si sta per concludere l’accordo manda un missile a uccidere un capo della parte avversaria). Nulla cambia con l’inaspettato ritiro della candidatura nel pieno della trattativa: il Presidente Biden legittimamente vuole passare alla storia come colui che ha portato la pace nel mondo. E questo successo potrà portare con le ali ai piedi alla Casa Bianca la candidata democratica.
Rimane ancora un problema non da poco: come far accettare agli ucraini l’occupazione russa di quasi il 20% del loro territorio, “la russificazione” degli abitanti lì rimasti, la situazione dei milioni di profughi e sfollati che sono fuggiti dalle regioni invase; come far accettare agli ucraini le decine di migliaia di morti invano? E soprattutto, come possono gli ucraini accettare che la loro sicurezza e indipendenza siano demandate a futuri accordi internazionali, senza alcuna concreta garanzia? Hanno già sperimentato l’inconsistenza del protocollo di Budapest, dove le potenze nucleari garantivano la sua sicurezza e gli inconcludenti e fallimentari accordi di Minsk; occasioni che la Russia ha ben sfruttato per rafforzarsi e prepararsi alla prossima invasione. L’Ucraina con questo tipo di accordo perderebbe anche la speranza di un futuro. Il presidente Zelensky non può firmare un accordo del genere; rinnegherebbe se stesso, tradirebbe il suo mandato, rischierebbe una guerra civile. E lo fa sapere ai negoziatori americani. Che hanno a disposizione efficaci strumenti per indurre gli amici ucraini ad accettare il cessate il fuoco e per non farlo apparire come un’imposizione, ma come una scelta degli ucraini e dei russi, favorita dalla sapiente regìa del presidente americano. Hanno la mano sul rubinetto degli aiuti militari: sono deliberati fino al 30 settembre, poi bisogna far passare una nuova legge. E, se necessario, sanno come fare a indurre il presidente Zelensky a dimettersi, riferisce la mia fonte.
Il tempo stringe, la campagna elettorale americana sta entrando nel vivo. L’orizzonte del cessate il fuoco e dell’annuncio della ‘pace americana‘ è settembre. Ecco allora, la mattina del 6 agosto, i migliori soldati ucraini entrano in Russia, cogliendo completamente di sorpresa non solo il nemico ma anche gli alleati, americani per primi. Con un’azione ardita e finora ben riuscita, con un investimento di forze che fa pensare i più a un azzardo, l’Ucraina sventa un pericolo mortale e imminente per la sua esistenza come Paese libero, indipendente e sicuro. L’attacco a Kursk rompe il paradigma dell’accordo che si stava chiudendo a sue spese; invadendo territorio russo, rende impossibile e inaccettabile a Putin il cessate il fuoco che ne sancirebbe l’occupazione, anche se temporanea; dimostra agli americani quanto siano vuote le minacce russe di usare l’arma nucleare; dimostra agli alleati che Putin è vincibile, solo che ve ne sia la volontà; dà uno schiaffo a Putin, che ora è costretto a reagire – “in maniera terribile”, ha promesso – e rischia così di perdere per sempre qualsiasi possibilità di essere un interlocutore. Se le truppe ucraine mantengono il controllo di una parte significativa di territorio russo almeno per qualche settimana (fino a fine settembre) hanno raggiunto il vero obiettivo dell’operazione.
Con l’azione di Kursk gli ucraini hanno dimostrato ancora una volta di saper rischiare e pagare anche con la morte per l’esistenza e la libertà del loro Paese e per la sicurezza del mondo libero, senza piegarsi alla violenza del prepotente. Sta a noi ora raccogliere questo messaggio, mettendo da parte opportunismi, ipocrisie e miseri interessi di bottega.
Giovanni Kessler